L’immaginario ludico di Nathalie Djurberg

In un binomio inquietante che vede in antitesi favole moderne e realtà immaginarie, un certo gusto per il kitsch ed un velato desiderio di trasformare la provocazione in bellezza, si snoda caricaturale e gotica l’arte di Nathalie Djurberg.

Nata nel comune svedese di Lysekil nel 1978, l’artista compie i suoi studi alla Hovedskous School of Art di Gothemburg e all’Accademia di Belle Arti di Malmö. Da qui conquista la scena artistica europea con l’enorme carica espressiva di quei pupazzi in plastilina che modella con le mani. Dopo si susseguono una mostra importante dietro l’altra, in spazi espositivi piuttosto importanti, nonostante la giovane età. Come quelli che le ha riservato la Fondazione Prada a Milano, lo scorso anno. La sua notorietà ha continuato a crescere fino ad arrivare a New York. Oggi vive e lavora a Berlino.

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Grazie alla tecnica dello stop motion, la Djurberg costruisce veri e propri set cinematografici, interni ed esterni, ma anche interi cast di protagonisti: animali con fattezze umane, accattivanti e prosperose signorine, vecchi borghesi dall’aria sordida. E ancora carte da parati, tendine fiorate, tappezzerie maleodoranti, tavole apparecchiate e decadenti. Il tutto miracolosamente realizzato con quel materiale gommoso e colorato che tutti, nell’infanzia, abbiamo avuto tra le mani. Ed è così che prendono vita mondi paralleli, macabri paradisi, universi allucinati da cui emergono elementi “disturbati” della psiche umana. O almeno così pare, visto che ironia ed inquietudine, sogno e incubo si incontrano e si scontrano in queste opere, senza mai smentirsi a vicenda. Il fine ultimo è quello di parlare di tematiche forti come la violenza, le credenze popolari, le condizioni esistenziali dei nostri giorni, la sessualità, il razzismo, in un modo che vorrebbe rivoluzionare i clichè morali, liberandoli da qualsiasi stereotipo. In una recente intervista Nathalie afferma: “…le due emozioni che caratterizzano il mondo in cui viviamo sono la paura e la rabbia; ed è la seconda che segue sempre la prima, quasi mai il contrario. Non direi che i miei personaggi sono impauriti, piuttosto sono io ad esserlo, soprattutto da una società dove tutto sembra chiaramente non lasciare spazio alla discussione.” E infatti i suoi lavori costringono lo spettatore a confrontarsi con le proprie recondite paure e con gli incubi più profondi. Il risultato è straordinariamente straniante. A chi osserva queste opere resta addosso un vago senso di malessere, di inquietudine, di disagio, talvolta di nostalgia, spesso di vera e propria angoscia. Le sue narrazioni grottesche e surreali hanno un ritmo abbastanza ossessivo, rafforzato dalle musiche di Hans Berg, giovane compositore svedese e suo compagno nella vita, che fanno da sfondo a tutti i suoi lavori. Con questa affatto scontata grammatica compositiva, la Djurberg crea allestimenti scenografici in cui, in una estetica piuttosto ruvida e che non raggiunge mai l’impeccabilità tecnica, la moralità viene scandagliata in tutti i suoi meandri, originando animazioni in plastilina che sono vere e proprie scenette di cronaca nera (vedi Caveman Mike, Tiger Licking Girl’s Butt, It’s All About Painting, Hungry Hungry Hippoes) che, circondate da un’aura malsana, virano spesso verso il grottesco e lo scabroso. Le opere dell’artista sono in bilico tra l’unico e l’arbitrario ed il minuzioso controllo del loro aspetto le riduce puramente ad oggetti e/o personaggi facilmente riconoscibili, non deviando mai verso l’astratto, ma denunciando in modo netto l’insofferenza formale dei nostri tempi. Nella loro ingenuità, queste rappresentazioni manifestano in realtà tutta la forza dell’immaginazione, originando veri e propri film di animazione, che ricordano vagamente il primo Tim Burton, e che spesso sono dominati da scene di violenza e di abusi, di pedofilia e di sodomia. A dire il vero, per affrontarli è necessaria una buona dose di ironia ed umor nero. Dice ancora l’artista: “Io amo le favole per bambini che turbano gli adulti.” E con la Djurberg non si corre certo il rischio di non restare turbati entrando in contatto con quel suo mondo fatto di reminiscenze di favole nordiche e racconti di illustratori russi. Dice d’aver letto da bimba le fiabe del grande Andersen e di non aver guardato la televisione fino agli otto anni. E questo deve aver stimolato la sua fervida fantasia. Uno se la immagina grande sognatrice, ma in realtà solo due volte afferma di aver trasformato in idee dei veri e propri sogni. In un piccolo appartamento di Berlino, in soli settanta metri quadri, prendono dunque vita mondi onirici e paralleli, animati da strani personaggi. A lei non interessa rappresentare personalità individuali, ma evidenziare situazioni paradossali, in cui clichè stereotipati fanno fatica a restare tali. Ed è così che l’artista si inserisce in quella lunga tradizione figurativa che la precede. Niente a che fare però con le forme dissacratorie dell’arte corporea dell’ultimo ventennio del secolo scorso, niente azionismo viennese e nessun cenno di body art. Lontani dall’arte estrema di Gina Pane, quanto da quella di Marina Abramovic.

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In questo realismo traumatico che comprende molti temi del quotidiano, la Djurberg si occupa di condizioni emotive e mentali, di disagi psicologici di cui l’intera umanità è sofferente e, affrontando situazioni difficili e complesse, compie il tentativo di smorzarne la gravità, cercando il lato comico e goffo che le caratterizza. Il suo nome tradotto dallo svedese significa ‘animale di montagna’ e a noi piace pensare che a questo si debba imputare l’inquietante interscambiabilità di ruoli tra l’uomo e l’animale che da sempre caratterizza i suoi lavori. In Morfologia della fiaba, di Propp, testo del 1928, l’autore scrive: “Gli elementi costanti, stabili della fiaba sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente da chi essi siano e in che modo le assolvano. Le funzioni – continua Propp – sono perciò le componenti fondamentali della fiaba, gli elementi con cui viene costruito lo svolgimento dell’azione.” Anche le funzioni di questi nostri personaggi sono costanti e sempre uguali, pur nella loro varietà.

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Tese a denunciare un mondo allucinato in cui  i traumi e le ossessioni degli esseri umani vengono resi palesi attraverso un onirico mondo di fantasticherie, dove, sola vera principessa, regna sovrana l’artista Nathalie Djurberg, dai biondi capelli e dai felini occhi di ghiaccio.

 

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